Prima di franarti addosso le domeniche non avevo un significato particolare, anzi le utilizzavo per studiare. Per recuperare il tempo perso in settimana. Poi mi hai fatto notare che forse i miei buoni risultati scolastici derivavano proprio dalla mia strana concezione della domenica. Eravamo proprio alle prime armi quando me lo dicevi. E adesso che ci siamo scambiati qualche figurina esistenziale, ci assomigliamo da distanti. E ce lo diciamo anche, non è una distanza silenziosa. Che è bello che ci siano queste tracce di noi in uno e nell'altra- che è un po' come avere dei figli, dici tu. E poi mi fai tutto il discorso sul futuro, di non star lì ad aspettare e di farmi una vita altrove. Però se la domenica piove e tira aria da vento, rifletto sul tuo concetto corrucciato di domenica della vita e di te che me lo spieghi e della somiglianza di adesso che è come una prole. Allora decido di spendere del tempo in una libreria, dove almeno lì non piove. E ne vedo di pagine di scritti e penso che dovrei tornare a casa e scrivere anch'io. Che le pagine sono come i figli, che rendono comuni gli individui e li rilegano assieme. E non vuol dire che li relegano in costrizioni, ma li ri-eleggono a un ruolo che non ti aspetti, spesso ben oltre una singola giurisdizione. Ma si può scrivere per dire, per lasciare un solco che ari la memoria, insomma volevo scrivere per riportare. Così riporto quando mi hai scritto: ”Così, vorrei scriverti a proposito di quel che hai scritto tu, sulla nostra condizione di orfani, sulla tua vera, sulla mia,
quantomeno di orfana di noi due. Però so di non poter parlare di noi
due, perché c'è un gran bene che ci unisce, ma un bene espresso in due grandezze fisiche tra loro non commensurabili, e io sono la malattia,
non posso essere la tua medicina. A meno che non si dimostri la
validità dell'omeopatia del cuore, ma dubito che sia scientificamente
dimostrabile. E lo so, mi rispondi che la scienza non è che una
modalità di pensiero.
Che anno pieno, mostruoso nel senso etimologico del termine, di grandezza e orrore al tempo stesso. E non posso, come già detto, parlarne appieno, perché sarebbe come tentare di descrivere la superficie del mare con la testa sott'acqua. Però tu sei
sopravvissuto, sopravvissuto a tutto quello che ti è successo, e hai
ancora il cuore e la mente e i muscoli intatti; ammaccati, ma pur vivi.
Solo questo, dovrebbe renderti fiero di te. Solo questo, mi rende fiera
di te. Perché solo adesso comincio a vedere i contorni di quello che ti
è franato addosso.”
Così riporto queste tue parole e queste altre che avevi messo in calce:
"Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero
tempo della fiaba. E certo non intendo con questo l'era dei tappeti
volanti e degli specchi magici, che l'uomo ha distrutto per sempre
nell'atto di fabbricarli, ma l'era della bellezza in fuga, della
grazia
e del mistero sul punto di scomparire, come le apparizioni e i segni
arcani della fiaba: tutto quello cui certi uomini non rinunziano mai,
che tanto più li appassiona quanto più sembra perduto e dimenticato.
Tutto ciò che si parte per ritrovare, sia pure a rischio della vita,
come la rosa di Belinda in pieno inverno. Tutto ciò che di volta in
volta si nasconde sotto spoglie più impenetrabili, nel fondo di più
orridi labirinti." (Cristina Campo, Fiaba e mistero.)
Le ho capite solo ora, forse.
Nessun commento:
Posta un commento