Ho capito il senso della raccomandazione che mi faceva sempre mia madre: stai attento a non prendere freddo solo dopo che è morta, mia madre. Era un gennaio come questo e io dovevo andare all'università per fare uno dei miei ultimi esami e faceva freddo. Così ho messo su le calzamaglie sotto i pantaloni, che lo facevo già di solito d'inverno. Ma questa volta le ho messe con consapevolezza. Non avevo studiato molto per l'esame perché ero stato impegnato molto per gestire il post mortem della morte di mia madre; però mi aveva interrogato l'assistente, che era un po' un pollo. E io non sapevo bene la risposta alla sua domanda su quell'edizione filologica dei Pensieri di Pascal e allora gli ho parlato, all'assistente di Cogito e storia della follia, che è un saggio di Derrida che avevo letto per conto mio. Dicendo che se la luce dell'idea chiara e distinta di Cartesio illumina la conoscenza sensata, al contrario l'interrogazione del soggetto su di sé porta a una domanda senza risposta e dovrà rinunciare al suo ruolo di guida, così Cartesio tocca già quello che appunto Derrida chiama “un eccesso inaudito”. Allora gli ho detto all'assistente che Derrida questo eccesso inaudito lo poteva vedere anche in Pascal e ho argomentato così un po' a caso. Allora a lui, all'assistente gli è piaciuta sta roba, perché non lui l'aveva capita e allora mi ha messo ventinove. Che non è male come voto. Poi, dopo l'esame sono andato al Rosso, che è un bar con Jacopo e Matteo e la Chiara, però forse la Chiara è arrivata dopo perché lavorava e ci siamo messi a ciavarsi del prosecco e poi quando eravamo divelti Jacopo si è messo a suonare il piano, perché dentro al Rosso c'è un pianoforte e chi lo sa suonare lo può suonare, ma penso che lo possa suonare anche chi non lo sa suonare. Però Jacopo riusciva a suonare solo Topolin, Topolin, Evviva Topolin che sembrava di stare dentro a Full Metal Jacket. E chiuso il Rosso, che è un bar siamo usciti e faceva ancora più freddo; allora mi è tornato in mente il mio esame e che era il primo esame che facevo dopo la morte di mia madre. Che allora avevo pensato alla critica di Derrida ad Heidegger, dicendo che Heidegger era inserito nella metafisica fono-logo-centrica dell'occidente perché riconosce la superiorità della metafora linguistica rispetto alle altre metafore e siccome l'arte è la metafora, e questa ultima cosa la dico io, la poesia è il linguaggio e quindi la poesia è dove si manifesta verità . Per questo Heidegger cita George e dice che “nulla è dove la parola manca” e questa cosa della parola che manca mi è tornata in testa l'altro giorno che sono andato a una manifestazione contro la Gelmini all'università qui a Venezia e c'erano degli oratori con il megafono che facevano schifo e lì davvero la parola mancava ed è proprio vero che se manca la parola non c'è niente e lì davvero non c'era niente. L'unico bravo oratore aveva anche un aspetto simpatico perché era un po' ciccione e con i baffi e con le basette e aveva detto che lui non era comunista ma che ci sono due parole che gli piacciano davvero tanto e che le avrebbe usate per questo, cioè perché gli piacciono, queste parole. E allora dice che le parole che gli piacciono sono compagno e rivoluzione e che allora ci avrebbe chiamati compagni e avrebbe parlato di rivoluzione e poi io mi sono a pensare su queste parole e non lo ho più ascoltato. Poi me ne sono tornato a prendere freddo senza stare attento a non prenderlo, il freddo però. E allora lì mi sono ricordato di mia madre che mi diceva di stare attento a non prendere freddo e che aveva proprio ragione a dirmelo anche le ultime che mi ha visto anche se io secondo me ero già grande, ma faceva davvero bene a dirmi di stare attento a non prendere freddo anche se avevo già più di vent'anni perché uno quando ha vent'anni ha sempre freddo, perché ci saranno tipi diversi di freddo ma quando scriveva “Sono giorni ormai che piove e fa freddo e la burrasca ghiacciata costringe le notti ai tavoli del Posto Ristoro, luce sciatta e livida, neon ammuffiti, odore di ferrovia, polvere gialla rossiccia che si deposita lenta sui vetri, sugli sgabelli e nell’aria di svacco pubblico, che respiriamo annoiati, maledetto inverno, davvero maledette notti alla stazione...”, Tondelli secondo me aveva freddo. E allora sono stato contento di avere su le calzamaglie.
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