domenica 30 gennaio 2011

Razzi all'occhiello

St'altra notte mica stavo disteso come un pelle d'orso vicino al caminetto in un ranch dell'Oklahoma. Me ne stavo sistemando di vezze quando mi sono chiesto a che ora vanno a dormire i kamikaze. E se non fosse il caso di intentare anche qui una specie di rivolta del pane e tu che dicevi che il pane era davvero molto buono e che il detto buono come il pane era vero, come pochi altri detti sono veri. I morti salgono a cinquanta si legge sugli occhielli. L'ultimo che avevo visto era coniugi trovati morti in casa. Forse un razzo. Era il giorno dopo capodanno. Cosa si sarebbe scritto il giorno dopo la rivolta? La questione è che eravamo come un delay nelle canzoni dei Joy Division rispetto alla storia. Love will tear us apart, pensavo. Anche alla nostra storia, mia e tua. Noi come i guerriglieri in Tunisia. E che gioia poter tirare i sassi di Matera sulle vetrine per romperle. O, one two, ecco finire il lavoro iniziato dagli americani a Hiroshima. Let's rock. Ovvero, com'è che imparai ad amare la bomba. O forse un razzo. Per salirci sopra, al razzo e bruciare le nostre carte d'identità. E bruciare i coniugi e trovarli come cenere. Noi come i coniugi trovati morti in casa. Ci eravamo accorti in ritardo e adesso si faticava a prenderci perché era comodo appellarsi al legittimo impedimento. Poi mi sono immaginato il loro matrimonio e tu che finalmente ti potevi mettere i tacchi perché non c'ero io. Che ero troppo basso per stare vicino a te con i tacchi. Che ero troppo impegnato a scrivere dichiarazioni di guerra a dio. Per poter spingere migliaia di immigrati in Europa a vedere la tomba di mia madre o di Pasolini e sentirmi dire felicitazioni. Vieni con me a correre sulle ceneri di Gramsci o dei due coniugi trovati morti. Forse un razzo. Ma quando vanno a dormire i kamikaze?

sabato 22 gennaio 2011

I nostri undici settembre

Dovevamo smetterla di invitarci ai funerali. Eppure eravamo lì. E quei lunghi mesi che non tornano.


E le colpe smezzate come le spese per un affitto che non ci potevamo permettere. Io mi annoiavo a guardare le moria dei nostri amici arruolati per invadere le città più grandi. Tu mi dicevi che quella sera speravi che io sarei uscito, ma ero a Belluno. E l'ultima cosa che volevo era sentirti piangere mentre mi vergognavo del mio rantolo. Allora mi sono chiesto quale delle due torri fosse stata abbattuta per prima. E mi sono immaginato che cosa avremmo fatto noi: se ci fossimo fatti incendiare o trafiggere le costole dall'ala dell'aereo. Forse ti avrei invitato a fare una passeggiata parallela alla lamiere o a raccogliere souvenir tra le macerie. Protetti solo da paracaduti improvvisati chi avrebbe mai detto che ci saremo continuati a pensare non come dio comanda. E che sarebbe entrata altra gente in cucina mentre piangevamo. Eppure eravamo lì. E tu mi rassicuravi e dicevi che non bisognava confondere la presenza di nubi con l'assenza di cielo. Però io ho guardato in su e vedevo solo quella nuvola enorme esplodere dai serbatoi del volo centosettantacinque. In realtà non mi interessava più tanto di quella cazzo di nuvola e delle persone bruciate a cui eravamo superstiti: la mia preoccupazione era il mio stomaco che bruciava perché era già il mio compleanno, il giorno delle torri, e tu non mi avevi fatto gli auguri, il giorno dell'inizio del nostro basso impero. Delle parole notturne difficili da portare quando tu mi riaccompagni a casa al telefono perché dici preoccuparti di me è come farlo per te stessa. E non lo sai per quanto tempo, ma è così. E forse siamo durati di più della nostra scadenza perché avevamo una piccola tenda come paracadute. Che mi avevi regalato tu per il mio compleanno prima. E non importa se quello dopo non mi hai fatto gli auguri. Perché ancora ci addormenteremo senza tre pompieri che ci issano addosso una bandiera.

martedì 18 gennaio 2011

Commemorare

Era da molto tempo che non ci abbracciavamo così quando lo abbiamo fatto si sono sentite scricchiolare le giunture dell'anima. Era stato quando ci stavamo cercando notizie di noi e allora tu ti sei accorta che anche se l'inverno era stato davvero freddo io non avevo mai messo il piumino quell'anno. E sempre il cappotto, che era liso. Perché sapevi che mi vergognavo a mettere su quel piumino che mi avevano regalato qualche anno prima. Mi vergognavo perché era un piumino costoso e a me piaceva odiare. A te non stava antipatico quel piumino, anche se preferivi il cappotto, che era liso. Dicevi che era molto buffo, il piumino. E ridevi e ti si arricciava il fiocco sempre rosso tra i capelli. E sarà che ce ne siamo stati distanti ma quell'inverno io il piumino lo avevo messo perché ero in un posto dove non mi interessava essere e potevo anche sembrare svergognato. In realtà la vergogna era diventata una condizione abituale perché come dice Sartre, che io comunque lo trovo sopravvalutato, Sartre che però qui ha ragione. Insomma, dice Sartre che tipo si prova vergogna allo sguardo dell'altro perché lo sguardo ci rende nudi anche se abbiamo e vestiti addosso perché nello sguardo dell'altro siamo come degli oggetti e allora noi ci sentiamo nudi come gli oggetti che vediamo, per esempio in cucina, esposti allo sguardo. Magari però Sartre non faceva proprio questo paragone ma il senso è questo. E noi eravamo davvero come degli oggetti perché quello che rimaneva di noi era solo la resistenza dell'inerzia della materia che sopravvive allo scorrere della velocità della luce e si imprime in una pellicola. Ma ciò che si imprime nella pellicola sono solo i contorni e dai contorni solo all'inizio si possono ricordare le sensazioni. Poi rimangono solo i contorni come per gli oggetti nudi. Per questo anche se con su il piumino mi vergognavo solo in un modo essenziale perché per vederci, noi dovevamo guardarci nei nudi che eravamo nei contorni delle foto. Contorni influenzabili come quella volta che dovevamo andare al lago per veder un film e pioveva e abbiamo dovuto fermare la macchina che guidavi tu. Oppure come la Giudecca sbirciata dalla nebbia delle Zattere. Per poi sospirare fino a che le piogge non innalzeranno troppo il livello delle acque.

giovedì 13 gennaio 2011

Virus Coxsackie

Siccome attorno avevamo più grattacieli che cieli dove grattarci via l'esantema dal cuore e tu mica parli di me nei tuoi discorsi. Allora ci siamo rivisti in quella foto estiva dove si vedeva che tu non soffrivi il caldo e che io ho i piedi un po' piatti, perché si vede che il piede sinistro lo butto verso fuori quando cammino. E sarà per questo che le scarpe, io le consumo sempre nella stessa maniera e mi lamento che mi fanno male i piedi. Che però mi fanno meno male che ai soldati in ritirata. La loro preoccupazione, di sti soldati era solo di non morire e noi non lo potevamo capire perché c'era chi ci diceva che una volta si nasceva e si moriva ma che ora si nasce morti e pochi hanno la fortuna di morire ancora perché adesso al massimo le vescicole seguono la tensione cutanea senza particolari complicanze. Ma io non gli credevo a loro perché non ero capace di star lì a tenermi di conto delle cifre della storia, preferisco camminare. E farmi far male ai piedi, che sono un po' piatti i miei. Però tu pensavi ai piatti che dovevamo tirarceli come nei romanzi e io che non lo volevo che i piatti stessero a mezz'aria tra i grattacieli. E allora i piatti li abbiamo solo cambiati di sistemazione, senza farli volare. E non startene a chiedermi cosa ne penso di qua o di là perché me ne sono già sloggiato. Così disfo le domeniche come un letto fatto a dovere in cui vi si getta sopra una catastrofe, o solo un ciccione. E chi lo sa se ci si risolleverà mai da sta malattia che spezza i nervi; per fortuna che non è estate come in quella foto e viene buio presto. E cammino come una barca senza una mano che la armi e con i piedi che mi fan male. Senza niente da raccontare e con la penna che disarmata nella mano riempie il silenzio di unghie mangiucchiate. E se avremo tutto io rivorrò anche le mie dita rosicate e i piedi che mi fan male. Anche se di solito si dice che abbia generalmente un decorso benigno.

mercoledì 12 gennaio 2011

Il fattore Rh

Per i nostri figli iperglicemici non nati in un regime oclocratico, per la loro salvezza e la mia destrezza nel mettere il materasso al posto giusto. Per averti confusa fino alla circonvallazione del senso, per la rotonda della storia che non ho voluto percorrere. Per la storia inautentica che ti cresce addosso, per la scia dei tuoi capelli che sembra, da lontano, reggere il peso della mia vita. Inutile, perché mi sono sputtanato tutto con la borghesia di mio padre, perché è tutto nei tuoi discorsi e nel tuo vestito di fine secolo scorso. E, perdonami se la colpa ricade a te, tuttavia io mi sono fondato su di te a descrivere dei profili inverosimili in cui io avevo paura di fare roba in macchina. E, perdonami se non ti ho consegnato il questionario per la valutazione della felicità. Per le tue R-esistenze e le mie heideggeriane differenze (ontologiche). Per le tue vetrine piene di scarpe e la buona notte con un bacio addormentato. Per il natale odiato che ora è chiuso sotto vuoto, se non per tua madre, amore mio. Per il divenire che trascolora da mutamento a schianto schiavo della distruzione.
Per l'epatite che nota questo cambiamento, questa distruzione: l'umidità di Venezia che mi marcisce.

sabato 8 gennaio 2011

Sfollati

Stavamo affacciati alla finestra e guardare tramonti di civiltà e ascoltare le canzoni Aznavuor per pensare a come è triste Venezia. E avevamo occhi aperti ma eravamo già di spalle. E sotto a quel tuo vestito tra il blu e il viola c'era molto di più del secolo scorso. E quel tacchettio che sentivi dietro di te che ero io che ti rincorrevo per la prima volta. E avevo il passo dispari e sgraziato come una Dresna illuminata a giorno anche se tu eri vestita di bianco. Se non ricordo male non parlavamo già fuori-sincrono: non ci si diceva andando al Lido che eravamo come le mozzarelle e che il nostro amore stava ingiallendo e non diventando blu. Perché al tempo non c'erano ancora state le mozzarelle blu ma solo i caschi in Kosovo. Come se niente fosse abbiamo sperato di essere salvati in un bar e poi ci ritroviamo e tu mi dici anche se siamo giovani che speri che l'eterno ritorno ti ridia la tua giovinezza e la mia voce che ti è amica al telefono o in bar. E avevamo occhi aperti ma eravamo già di spalle. E ci siamo attesi come un canto in una casa inagibile e temuti come il grido attorno al quale si è radunata l'umanità. Così abbiamo dovuto essere lacunosi. Hai visto la lontananza che alla fine esisteva mentre io prendevo la pioggia da solo tornando a casa. E gli elenchi che hanno sempre qualcosa di funebre come quando dissero, al funerale di mia madre che per due gocce di pioggia già lei si preoccupava dei figli.

martedì 4 gennaio 2011

Martiri

Dopo esserci laureati siamo ritornati a Belluno, che nel frattempo era diventata secondo le statistiche la città dove si vive meglio in Italia. Siamo ritornati a Belluno per la ridistribuzione degli avvenire ma la domenica pomeriggio in piazza c'erano solo badanti e fattoni. Così non che ci fossero proprio tante possibilità per noi che non avevamo nemmeno il mito dell'audi nuova. E assieme al mito ci mancava anche il mutuo per l'audi nuova. Però la piazza si chiama piazza dei Martiri e allora forse l'unico avvenire che ci rimaneva era quello del martire. Ma non il martire a cui era dedicata quella piazza, perché della storia e della resistenza non ce ne fregava un granché, e anche quelli che facevano gli interessati i martiri ora li avevano appesi alle pareti sui poster perché credevano di pensarla come loro, gli interessati, il che non è tanto differente dall'appendere i martiri sui lampioni in una piazza perché non la pensano come loro, cosa che hanno fatto i fascisti però, non gli interessati. E allora che cazzo di martiri potevamo essere? Non potevamo nemmeno metterci all'opera, perché l'Opera a Belluno è un bar di merda vicino al teatro comunale. Per pudore ce ne siamo ritornati via a vedere altre badanti e altri martiri e altri fattoni, come luca-petto-nudo. Che una volta lo abbiamo incontrato sul ponte degli Scalzi a Venezia ed era a petto-nudo ma possedeva una borsa di nylon e tu ti sei chiesto se dentro quella borsa ci fossero altri petti-nudo e non avevi detto altro per tutta la sera. Ma allora hai deciso di portare con te le tue poche parole e di andare a Londra per vedere dei fattoni famosi tipo Sid e Nancy o qualcuno della loro discendenza, visto che di badanti non ne avevamo ancora conosciute e noi eravamo già dei fac-simile di martiri che sembravamo in vendita dai cinesi. Così ci aggiravamo come pendolari in città con il fiato spezzato come le reni e inseguiti dal progresso e dalle banche, che sentono la paura come si dice dei cani e allora ti inseguono. E chiedevamo solo di perdere le coincidenze e di abitare scomodi come in voli economici. Eppure continuavamo a parlare un linguaggio bellico e a immaginarsi come martiri, senza piazza però.

lunedì 3 gennaio 2011

Rastrellamenti

Dopo capodanno, l'avevo detto che mi sarei tagliato la barba. Così son già passati dei giorni e non me la son ancora tagliata. Potevo farmela, la barba domenica e invece ho deciso di farla l'indomani; solo che era lunedì e ero di corsa. Allora ho lasciato il lavandino sporco perché dovevo uscire a far finta di cercar lavoro, così avrei continuato a lamentarmi di non trovarlo e a piangermi addosso per poi raccogliere le lacrime e distillarle e ubriacarmicisi. Il problema è che non venivano le lacrime, ma avevo davvero sete e allora mi sono messo a tagliare una cipolla sul tavolo della cucina della casa che era dei miei genitori, quando c'erano. Allora avevo proprio voglia di giocare alle barricate con la pigrizia e che lei vincesse, la pigrizia e che io mi consegnassi a lei come un soldato in ritirata. Ma poi ho letto Simone Weil che scrisse nella lista delle tentazioni da leggere ogni mattina che la più nociva era proprio la tentazione alla pigrizia. Cioè non lo aveva scritto proprio così ma lo deduco io perché pigrizia era scritto in grande o in corsivo non ricordo e poi, anzi, c'era davvero scritto tra parentesi che era di gran lunga la tentazione più forte. Allora mi son dovuto mettermi a sistemare la vecchia camera mia e ci ho trovato una scatola rossa con su scritto the stupid box e lì dentro c'era ancora una vecchia tazza che mi avevi regalato tu e lì ci avevo messo le tue foto e le lettere che mi avevi scritto quando eri in Francia. E allora mi son ricordato che mi avevi regalato anche una coperta arancione che uso ancora, che dicevi fosse necessaria per sopravvivere a quell'inverno da lontani. E l'inverno, che è la mia stagione preferita, noi non l'abbiamo mai vissuto in pace: prima eri via, poi abbiamo dovuto rincorrerci nei lutti, poi lavoravi e io non c'ero. Però quella coperta ce l'ho ancora anche nella casa nuova e tu dici di sentirti a casa adesso, anche se io non ci sono e la casa non è quella mia. E di inverni da lontani ce ne saranno parecchi. Così decido di ascoltare l'unico proposito decente che mi è stato proposto per il nuovo anno e mi rileggo il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere di Giacomo da Recanati: “Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? No in verità, illustrissimo.” E quasi fuori c'è la sera che viene e con lei le ronde padane. E io comincio quell'operazione che con gaudio le forze dell'ordine chiamano rastrellamento e così pulisco il lavandino dalle reliquie di una barba, il tavolo della casa che era dei miei genitori dalla cipolla tagliata, ma la scatola rossa, quella no non la richiudo e ne vado a dormire da solo sotto la coperta arancione. Ma facendo mente locale sospiro che per fortuna oggi l'esito del rastrellamento dice che non ci sono stati caduti.