Dovevamo smetterla di invitarci ai funerali. Eppure eravamo lì. E quei lunghi mesi che non tornano.
E le colpe smezzate come le spese per un affitto che non ci potevamo permettere. Io mi annoiavo a guardare le moria dei nostri amici arruolati per invadere le città più grandi. Tu mi dicevi che quella sera speravi che io sarei uscito, ma ero a Belluno. E l'ultima cosa che volevo era sentirti piangere mentre mi vergognavo del mio rantolo. Allora mi sono chiesto quale delle due torri fosse stata abbattuta per prima. E mi sono immaginato che cosa avremmo fatto noi: se ci fossimo fatti incendiare o trafiggere le costole dall'ala dell'aereo. Forse ti avrei invitato a fare una passeggiata parallela alla lamiere o a raccogliere souvenir tra le macerie. Protetti solo da paracaduti improvvisati chi avrebbe mai detto che ci saremo continuati a pensare non come dio comanda. E che sarebbe entrata altra gente in cucina mentre piangevamo. Eppure eravamo lì. E tu mi rassicuravi e dicevi che non bisognava confondere la presenza di nubi con l'assenza di cielo. Però io ho guardato in su e vedevo solo quella nuvola enorme esplodere dai serbatoi del volo centosettantacinque. In realtà non mi interessava più tanto di quella cazzo di nuvola e delle persone bruciate a cui eravamo superstiti: la mia preoccupazione era il mio stomaco che bruciava perché era già il mio compleanno, il giorno delle torri, e tu non mi avevi fatto gli auguri, il giorno dell'inizio del nostro basso impero. Delle parole notturne difficili da portare quando tu mi riaccompagni a casa al telefono perché dici preoccuparti di me è come farlo per te stessa. E non lo sai per quanto tempo, ma è così. E forse siamo durati di più della nostra scadenza perché avevamo una piccola tenda come paracadute. Che mi avevi regalato tu per il mio compleanno prima. E non importa se quello dopo non mi hai fatto gli auguri. Perché ancora ci addormenteremo senza tre pompieri che ci issano addosso una bandiera.
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