Prima di franarti addosso le domeniche non avevo un significato particolare, anzi le utilizzavo per studiare. Per recuperare il tempo perso in settimana. Poi mi hai fatto notare che forse i miei buoni risultati scolastici derivavano proprio dalla mia strana concezione della domenica. Eravamo proprio alle prime armi quando me lo dicevi. E adesso che ci siamo scambiati qualche figurina esistenziale, ci assomigliamo da distanti. E ce lo diciamo anche, non è una distanza silenziosa. Che è bello che ci siano queste tracce di noi in uno e nell'altra- che è un po' come avere dei figli, dici tu. E poi mi fai tutto il discorso sul futuro, di non star lì ad aspettare e di farmi una vita altrove. Però se la domenica piove e tira aria da vento, rifletto sul tuo concetto corrucciato di domenica della vita e di te che me lo spieghi e della somiglianza di adesso che è come una prole. Allora decido di spendere del tempo in una libreria, dove almeno lì non piove. E ne vedo di pagine di scritti e penso che dovrei tornare a casa e scrivere anch'io. Che le pagine sono come i figli, che rendono comuni gli individui e li rilegano assieme. E non vuol dire che li relegano in costrizioni, ma li ri-eleggono a un ruolo che non ti aspetti, spesso ben oltre una singola giurisdizione. Ma si può scrivere per dire, per lasciare un solco che ari la memoria, insomma volevo scrivere per riportare. Così riporto quando mi hai scritto: ”Così, vorrei scriverti a proposito di quel che hai scritto tu, sulla nostra condizione di orfani, sulla tua vera, sulla mia,
quantomeno di orfana di noi due. Però so di non poter parlare di noi
due, perché c'è un gran bene che ci unisce, ma un bene espresso in due grandezze fisiche tra loro non commensurabili, e io sono la malattia,
non posso essere la tua medicina. A meno che non si dimostri la
validità dell'omeopatia del cuore, ma dubito che sia scientificamente
dimostrabile. E lo so, mi rispondi che la scienza non è che una
modalità di pensiero.
Che anno pieno, mostruoso nel senso etimologico del termine, di grandezza e orrore al tempo stesso. E non posso, come già detto, parlarne appieno, perché sarebbe come tentare di descrivere la superficie del mare con la testa sott'acqua. Però tu sei
sopravvissuto, sopravvissuto a tutto quello che ti è successo, e hai
ancora il cuore e la mente e i muscoli intatti; ammaccati, ma pur vivi.
Solo questo, dovrebbe renderti fiero di te. Solo questo, mi rende fiera
di te. Perché solo adesso comincio a vedere i contorni di quello che ti
è franato addosso.”
Così riporto queste tue parole e queste altre che avevi messo in calce:
"Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero
tempo della fiaba. E certo non intendo con questo l'era dei tappeti
volanti e degli specchi magici, che l'uomo ha distrutto per sempre
nell'atto di fabbricarli, ma l'era della bellezza in fuga, della
grazia
e del mistero sul punto di scomparire, come le apparizioni e i segni
arcani della fiaba: tutto quello cui certi uomini non rinunziano mai,
che tanto più li appassiona quanto più sembra perduto e dimenticato.
Tutto ciò che si parte per ritrovare, sia pure a rischio della vita,
come la rosa di Belinda in pieno inverno. Tutto ciò che di volta in
volta si nasconde sotto spoglie più impenetrabili, nel fondo di più
orridi labirinti." (Cristina Campo, Fiaba e mistero.)
Le ho capite solo ora, forse.
domenica 15 maggio 2011
martedì 10 maggio 2011
Ulisse e la sua nave
Ti ricordi che da piccolo avevo partecipato organizzato dal negozio di giocattoli dove lavorava la mamma. Il paese dei balocchi, si chiamava il negozio. E quanto ero viziato, un gioco al giorno o quasi. Insomma, senza perdere troppo il filo: questo concorso era per chi faceva la migliore delle costruzioni con i lego. Io avevo assemblato qualcosa tra il quadrato e l'informe con dei personaggini posti su sopra un pochettino a caso: Ulisse e la sua nave, lo avevo intitolato. E voi, genitorialmente mi dicevate che era meraviglioso, realistico e geniale e che avrei vinto di sicuro. E infatti poi mi è stato dato il diploma di costruttore lego, che solo adesso che sono grande l'ho capito che veniva dato a tutti i bambini partecipanti. Però se avevo scelto Ulisse e non qualcuno dei Biker Mice e degli Street Shark o degli altri cartoni che mi piacevano molto lo devo a te. E mi accorgo di assomigliarti più di quanto entrambi crediamo. E' vero sì che ho le braccia più corte e che però riempio meglio le tue giacche perché tu sei davvero molto magro, ma comunque le stesse giacche le riusciamo a mettere tutti e due tranquillamente. Poi alla fine, se ci si devono fare i conti il destino, mi sa ce ne usciamo malconci tutti e due in egual misura. Tutti e due alle prese con la colpa di essere ancora vivi e riflettiamo sullo scritto di Jaspers sulla questione delle colpa. Ce ne usciamo tutti e due inquieti e inoltre io me ne sono andato a Trieste, dove soffia quel vento che vero è che stare nelle città così di vento ti fa diventare disaquietare a vista d'occhio. Quel vento che mette a repentaglio la salute di tutti i cardini. I cardini che avevo provato a rompere dicendo che eri troppo borghese e che cosa serviva mandare in chiesa alla domenica, senza mai essere accorto che quei cardini io non li avevo capiti, perché bisogna sempre pur vivere e se ti fa bene sperare in chiesa ben venga, e lo stesso scrivere le poesie e sognare, che è già abbastanza dura svegliarsi tutte le mattine... che scemo a volerti tagliare anche questo. Allora sono sti cardini a tenermi su un pizzico dal vento. Sti cardini che sono Ulisse e la sua nave che si protegge dal canto ventoso delle sirene. E siccome mi continuano a ripetere che la canzone che dice “aspetto domani per avere nostalgia di oggi”, insomma sembro io il protagonista descritto in quella canzone. Allora aspetto di ritornare a casa e di non avere più nostalgia, anche se la avrò sempre: che sia di Itaca, di via Mameli o dell'aspettarti per scrivere un tema. Allora aspetto il coraggio di parlare sinceramente e di ringraziarti per avermi letto di Ulisse per farmi addormentare, perché io avrei letto ai miei figli il frammento di Anassimandro: quello in dice che da le cose hanno, lì necessariamente e che dobbiamo pagare il fio per il debito dell'esser stati vivi. Insomma quel frammento in cui si dice che dobbiamo morire. E se mi avessi letto quello sarebbe stato difficile oggi resistere a questo vento.
Verranno a cercarti con gli elicotteri del suem
Forse non ci ero mai stato in macchina così tanto tempo con mio nonno. E in più c'era anche il suo amico che poi non è così silenzioso come mi avevano detto. Solo che non so come si chiama perché quando mi sono presentato: piacere, Piergiorgio; lui mi subito detto: mi ere tanto amico anca de to nono, quel'altro. Quello di cui porto lo stesso nome, che infatti se ci vai un cimitero lo puoi trovare il mio nome esatto identico. E allora è normale credo, che io non mi ci trova bene alla prese con la morte anche se alla fine salta fuori sempre nei miei discorsi. Salta fuori anche troppo, tanto che hai deciso di aver bisogno di un futuro e che qualcuno ti facesse credere davvero alle finzioni, sebbene tu fossi intelligente da capire che erano solo finzioni. Che faranno anche vivere, ma finzioni. Tipo alla latina, che adesso devi fare anche l'esame di filologia. Insomma finzioni nel senso di creazioni, qualcosa che viene finto, plasmato apposta per vivere. Bene non lo so, ma vivere. E io non progettavo e non guidavo la macchina perché in macchina non ci sono mai stato tempo come con mio nonno e il suo amico. Ti ho chiesto se di me ti eri innamorata e lì mi hai detto che non te ne eri resa conto, che è stato come scalare una montagna e mentre sali non ti accorgi di salire e non guardi mai giù. Poi a un certo punto senti il bisogno di fermarti, di non salire più in quella montagna. Ti manca l'aria e il respiro si fa rantolo, ma questa è l'aria che ci tocca respirare, come direbbe Celan. E invece di buttarci sulla Senna, come ha fatto lui, Celan dico. Hai deciso di scendere, solo che poi ti sei accorta che era come una vertigine che ti faceva paura e che delle vertigini forse non è il caso di darci poi così importanza. Però la discesa di quella montagna l'avevi già iniziata, mi hai detto. Allora ho mandato un elicottero del Suem a cercarti e non ti hanno trovata. Ma io addio non te lo dico e per una volta parliamo bipartisan, e al massimo mi sfugge un se vedon pì veci, come direbbe l'amico di mio nonno.
domenica 24 aprile 2011
Diario di un ospite occasionale
Se non fosse per colpa del mio medico queste poche righe confuse non sarebbero mai nate.
4 giorni fa mi ha prescritto una cura antibiotica che lui stesso ha definito professionalmente da cavalli ,costringendomi alla sobrietà assoluta,che spesso coincide con la noia.
Nel giorno di pasqua,che da anni è sinonimo di bevuta colossale,mi sono ritrovato così a passeggiare per le vie di trieste senza meta cercando di ammazzare il tempo. Passeggiando con finta serenità ho incontarto le solite bancarelle di prodotti tipici, zeppe di ragazzotti meridionali che ti invitano per un assaggino che io rifiuto sempre,sentendomi una merda se poi non dedido di acquistare il prodotto. Ho virato in direzione del mare,piu per abitudine che per reale voglia di dargli un occhiata. Indeciso se acquistare o meno un gelato mi sono fermato davanti ad un bar,e seduta ad un tavolo c'era una ragazza in lacrime. Lacrime vere, non
occhi lucidi.
E che cazzo,sono fuori da 5 minuti e vedo una ragazza in lacrime,e ancor peggio non a cusa mia.
Per una frazione di secondo mi passa per la testa di andare lì e chiederle se è tutto ok,ma poi mi volto e me ne vado.Come sempre.Allontanandomi da quella gelateria dagli ombrelloni arancioni rifletto sul motivo di quelle lacrime,ma sopratutto cerco di capire perchè una ragazza della mia età,seduta in una gelateria di merda,sola e con le lacrime agli occhi non si possa alzare ed andare a sfogare il proprio dolore da un' altra parte. Penso che se era un uomo che stava aspettando,è una stupida ad aspettarlo. Se sono altre le preoccupazioni non è il tavolo di una gelateria il luogo adatto in cui sfogarsi,ma al massimo quello di un bar. In un viaggio pindarico mi scopro a pensare che qualla ragazza aspettasse me,poco probabile dato che mi ha fissato per un attimo ed il pianto è aumentato. Allontanandomi le auguro buona fortuna pensando che nessuno dovrebbe arrivare al punto di trovarsi in una gelateria,solo e con le lacrime lungo le guancie... non ho finito di pensare a questo che davanti a me si piazza una ragazzina che avrà avuto 15 anni,che gentilmente mi porge un volantino elettorale. Osservandola meglio noto che è affetta dalla sindrome di down e che le riesce persino difficile articolare un semplice buongiorno, che il suo ruolo in quel luogo è una facciata pubblica, e voltandomi verso il gazebo elettorale,zeppo di freschi candidati alle prossime elezioni intententi a sorseggiare prosecco,l'unica cosa che riesco a pensare è: SIETE MERDE.
In questi momenti pensi che l'unica cosa che potrebbe tirarti su di morale è una birra,anche calda,ed invece girando l'angolo capisci che quando piove è sempre sul bagnato. Vestiti di tutto punto,con piume e tutto il resto,incontro I soliti indiani che si incontrano alle sagre di paese,tristi e malinconici. Cerco di capire dove possa risiedere la loro tradizione secolare,se nei dischi ai loro piedi (che vendono a 5 euro l'uno) o nella cover di IO VAGABONDO che eseguono accompagnati dalla base midi. Dopo le fabbriche abbandonate,gli indiani nelle piazze sono la cosa che piu mi rende malinconico. Decido che per oggi la mia passeggiata è durata anche troppo e mi dirigo verso casa dove mi aspetta la mia cura antibiotica. Ma prima di aprire la porta di casa sorrido pensando ad un amico che unavolta mi ha chiesto: ma dove finiscono tutti sti indiani quando non ci sono le sagre...io non li vedo mai in giro.
L'ospite.
4 giorni fa mi ha prescritto una cura antibiotica che lui stesso ha definito professionalmente da cavalli ,costringendomi alla sobrietà assoluta,che spesso coincide con la noia.
Nel giorno di pasqua,che da anni è sinonimo di bevuta colossale,mi sono ritrovato così a passeggiare per le vie di trieste senza meta cercando di ammazzare il tempo. Passeggiando con finta serenità ho incontarto le solite bancarelle di prodotti tipici, zeppe di ragazzotti meridionali che ti invitano per un assaggino che io rifiuto sempre,sentendomi una merda se poi non dedido di acquistare il prodotto. Ho virato in direzione del mare,piu per abitudine che per reale voglia di dargli un occhiata. Indeciso se acquistare o meno un gelato mi sono fermato davanti ad un bar,e seduta ad un tavolo c'era una ragazza in lacrime. Lacrime vere, non
occhi lucidi.
E che cazzo,sono fuori da 5 minuti e vedo una ragazza in lacrime,e ancor peggio non a cusa mia.
Per una frazione di secondo mi passa per la testa di andare lì e chiederle se è tutto ok,ma poi mi volto e me ne vado.Come sempre.Allontanandomi da quella gelateria dagli ombrelloni arancioni rifletto sul motivo di quelle lacrime,ma sopratutto cerco di capire perchè una ragazza della mia età,seduta in una gelateria di merda,sola e con le lacrime agli occhi non si possa alzare ed andare a sfogare il proprio dolore da un' altra parte. Penso che se era un uomo che stava aspettando,è una stupida ad aspettarlo. Se sono altre le preoccupazioni non è il tavolo di una gelateria il luogo adatto in cui sfogarsi,ma al massimo quello di un bar. In un viaggio pindarico mi scopro a pensare che qualla ragazza aspettasse me,poco probabile dato che mi ha fissato per un attimo ed il pianto è aumentato. Allontanandomi le auguro buona fortuna pensando che nessuno dovrebbe arrivare al punto di trovarsi in una gelateria,solo e con le lacrime lungo le guancie... non ho finito di pensare a questo che davanti a me si piazza una ragazzina che avrà avuto 15 anni,che gentilmente mi porge un volantino elettorale. Osservandola meglio noto che è affetta dalla sindrome di down e che le riesce persino difficile articolare un semplice buongiorno, che il suo ruolo in quel luogo è una facciata pubblica, e voltandomi verso il gazebo elettorale,zeppo di freschi candidati alle prossime elezioni intententi a sorseggiare prosecco,l'unica cosa che riesco a pensare è: SIETE MERDE.
In questi momenti pensi che l'unica cosa che potrebbe tirarti su di morale è una birra,anche calda,ed invece girando l'angolo capisci che quando piove è sempre sul bagnato. Vestiti di tutto punto,con piume e tutto il resto,incontro I soliti indiani che si incontrano alle sagre di paese,tristi e malinconici. Cerco di capire dove possa risiedere la loro tradizione secolare,se nei dischi ai loro piedi (che vendono a 5 euro l'uno) o nella cover di IO VAGABONDO che eseguono accompagnati dalla base midi. Dopo le fabbriche abbandonate,gli indiani nelle piazze sono la cosa che piu mi rende malinconico. Decido che per oggi la mia passeggiata è durata anche troppo e mi dirigo verso casa dove mi aspetta la mia cura antibiotica. Ma prima di aprire la porta di casa sorrido pensando ad un amico che unavolta mi ha chiesto: ma dove finiscono tutti sti indiani quando non ci sono le sagre...io non li vedo mai in giro.
L'ospite.
martedì 12 aprile 2011
Cinigia
Lì di fronte al focolare è che gli hanno chiesto a Eraclito dove fossero gli dei. E lui, Eraclito dico aveva detto qui e lì, che sono qui e lì, indicando non so dove. Ora invece che gli dei se ne sono andati tipo in ferie, credo visto che c'è il ponte lungo. Allora mi viene in mente quando mi hai detto che comportarsi così tra di noi era come scaldarsi con la cenere. Così io ti ho regalato Ciò che resta del fuoco di Derrida che infatti parla della cenere, cioè di noi. Poi mi anche detto che mi avrebbe fatto bene litigare con qualcuno che mi è vicino perché è evidente che hai problemi con la rabbia, mi dicevi. E io pensavo che magari poteva essere così forse perché avevo avuto una famiglia bislacca ma non troppo e non ci ero stato educato al postmoderno, ma solo a quella tradizione che ogni settimana mi mandava un bollettino a metà tra un bollettino parrocchiale dove si elencano le giovani coppie sposate e tutti quelli che fanno i sacramenti e a metà tra questo e un bollettino di guerra dove si contano i caduti e le madri piangono e i padri sacramentano contro il destino. Perché dev'essere devastante perdere un figlio, lo deve aver detto anche Confucio o forse la Bibbia: me lo ripetevano sempre quando è morta mia madre, che dovevo essere forte perché qui era la nonna che aveva subito lo strappo più forte e che io avevo tutta la vita davanti, esatto, proprio come nel film e allora voglio avere anch'io i capelli rossi come Isabella Ragonese, visto che anch'io ho studiato filosofia. E allora, dico c'era sto stridore tra la mia educazione e i fatti postmoderni e continuavo a non riuscire a litigare. E che sarà mai! Sta sera ci provo a litigare, vediamo...mmhh...con chi? Ok, litigo con J. e fa davvero tant'è che non mi ricordo molto. Solo qualche frase che dopo che mi siam chiariti mi picchetta in testa. Io e te siamo uguali, diceva J., l'unica differenza è che tu non c'hai dei genitori. E allora io continuavo a capirci mica tanto. Però mi continua ad affascinare la cenere e pensare che lo siamo, che lo sono le case dove ho abitato a Venezia. Che le sono andate a vedere, da fuori solo, timidamente, con il rispetto del pellegrino ma senza la sguaiatezza di quelli delle Canterbury Tales. Che lo è questo cielo bello che è quasi ammorbante come l'occhio vispo e strascicato e contornato di ombretto di una prostituta. Che poi diventa cenere anche quando mi immalinconisco e ascolto le canzoni di Piero Ciampi e mi immagino che te le stia dedicando. Ma poi mi passa e chi lo sa dopo che è passato che cosa sia. E poi non è anche in parte cenere la memoria un po' sforacchiata dopo che per anni ci siam fumate le canne? Così poi non ci si ricorda neanche perché avevamo litigato tra amici, ma questo non importa. E che fatica per ricordarsi cosa c'era scritto su quello specchio della vecchia casa. E per fortuna che anche chi è lontano, oltremanica e fuori dal continente si ricorda che nel bagno del chet, che è bar c'è scritto: non indietreggiare mai, a meno che tu non abbia dimenticato la birra. E che cosa resta del martedì grasso, se non un mercoledì delle ceneri? Ma non di quelli dove si va a catechismo ma di quelli del maggio dove si riempivamo gli zaini e si andava al pozzo in campo Santa Margherita sempre a festeggiare. E la gente ci chiedeva: perché festeggiate? Bé, è mercoledì! Non hai un calendario? E poi chi si ricordava di che cosa era successo: le cenere, il cameriere del ristorante di fronte che lo chiamavamo la scatola nera delle nostre serate e il pozzo. Che lo chiamavi “mamma pozzo” da quanto era punto di riferimento. E io continuo a perdere madri.
mercoledì 6 aprile 2011
Hegel
Quello era stato il mio ultimo carnevale a Venezia. L'ultimo da residente mi ripetevano gli altri, non l'ultimo. Spero abbiano ragione. Insomma non poteva che concludersi con un gran male di stagione, così lo chiamano. Una bella influenza, così impari a non farti il vaccino, così mi dicono. Però a dirla tutta, mi ci sta anche bene perché credo di aver esagerato. Insomma non è che si può bere tutte le sere, vabbè che la sete ti chiama spesso e come dice la pubblicità della sprite devi ascoltarla, la tua sete. E poi la mattina dopo, da furbo prima che scocchino le dieci ore passate dall'ultimo drink, cioè il picco dei postumi. Allora prima che passino ste benedette dieci ore e senti che il malessere si fa sempre più vicino che gli senti quasi in fiato sul collo tipo quando nelle corse di ciclismo ti inseguono, come nel giro delle Fiandre che c'è anche Ballan che è il nipote di un tipo che mio nonno gli portava i fuori quando faceva il camionista giù per la bassa, mi sembra di aver capito. Allora prima che arrivino ste dieci ore, mi ciavavo una bella bustina di oki che secondo è il top a livello di antidolorifici e ti stecca per una decina di ore. Giusto il tempo di uscire a innaffiare il corpo di bibite. Così sto carnevale se va via tutto anestetizzato. E poi è chiaro che il corpo si fa delle domande e ti viene l'influenza. Febbre alta e vaneggi come direbbe i giovani di Mestre. Poi, come se avesse ragione Hegel, ecco dopo il momento della negazione, l'influenza che nega l'anestesia emotiva del carnevale tramite il suo malessere tutto fisiologico, si ripropone una nuova positività. Ecco qua un davvero inatteso periodo di buon umore. Che va negato. Allora arrivano la guerra a due passi da casa e non ce se accorge, le scorie nucleari e i discorsi sull'estinzione del tonno. Che se dovesse succedere, l'estinzione del tonno, dico ci rimarrei male male perché è forse il mio alimento preferito. E arriva che una mattina stai facendo colazione e apre la porta della cucina tua nonna con le occhiaie gonfie di lacrime e con in mano una gonna che era sua e le andava bene fino all'inverno scorso e che adesso è il doppio di lei, pur restando la stessa quantità di stoffa che era e che per farla andare bene le ci vorrebbero venti schei in più, almeno. E ti dice, tua nonna che da quando l'è andà via to papà e da quando l'è morta la mamma mi no riese pì a dormir e che le sembra di svanire dentro le gonne. Di dissolversi.
domenica 27 marzo 2011
Bibite a Bagdad
Spingermi verso est poteva anche essere una soluzione. Ci si trovava in autostrada quando sulla sinistra comincia della roccia e mi dicono ecco qui cominciano i balcani, fino a Istambul è così. Che poi non avessi tanto senso dell'orientamento lo sapevo già, e infatti che per fortuna c'è piazza sant'Antonio e lì di fianco la chiesa serbo-ortodossa. E allora è un attimo arrivare in via Filzi a trovare le mie radici dove non te le aspetti. A trovarle e a condividerle, le radici, con quel popolo che hanno inventato la cravatta. A parlare della connection tra bellunesi e croati. A sentire Ivan che mi dice che lui è sempre stato buono con i bellunesi, nel senso che ha sempre avuto buoni rapporti con tutti quelli che ha conosciuto. Da Cusighe, da Sargnano, fino alla stazione di Ponte nelle Alpi, dove dicono che ci si la cabina del telefono più utilizzata di tutta Italia. E che non sa questa cosa cosa gli significa però forse c'è da preoccuparsi, dice tra se stesso e si mette a ridere. Allora mi spiega una piccola storia sulla connection: Ho chiamato mio padre...E lui mi dice che ha si è fatto un giro a Bagdad e che tutta la città è una merda, rovinata, distrutta...gente losca chiaramente ovunque... comunque, io gli chiedo come è finito in Bagdad considerando che lui non può andare fuori della sua base, visto che è un militare... Insomma... lui ha incontrato sto Croato che vive tutta la sua vita a Belluno (che combo eh?) hanno fatto due chiacchiere e chiaro salta fuori che il bellunese-croato ha della bibita ''sotto banco'', come dire... E che cosa fanno un bellunese-croato e un croato se c'è da bere? Bevono. Scatta sta bombetta, e chiaro che il bellunese-croato inizia parlare di Bagdad e come lui di qua e di là ha sto tizio soldato che conosce che lo lascia fuori ogni tanto...E chiaro,un bellunese-croato e un Croato che cosa fanno...escono fuori...le più classiche mine vaganti in città piena di mine...tanta roba...sono troppo esaltato...la amicizia Croato-Bellunese e adesso ufficiale...ovunque ci sono c'è merda e bombe... Mamma mia! Che poi se a noi della connection ci interessa in gran generale la bibita agli iraqeni, mi ha detto mio padre che loro mangiano solo pistacchi. Ha detto che puoi comprare tipo un kilo per un dollaro, da noi cento grammi vengono cinque euro. Ti dico io facciamo contrabbando? E si scoppia tutti a ridere mentre suonano al campanello come le sirene prima di un bombardamento. Ah è Zampieri! Dai Zampieri beviti un rosso!
mercoledì 16 marzo 2011
Scosse di tosse
Me lo dovevano anche aver detto, anche se probabilmente non sono stato attento. D'altronde mi sembrava talmente una gran cazzata. Che avevo i polmoni piccoli, cioè che avevo una capacità scarsa nella gabbia toracica o nella cassa polmonare o come si dice, insomma che avevo i polmoni piccoli lo sapevo. Questo è il bel regalo che ti hanno fatto i tuoi genitori che fumavano, mi ha detto una volta mio papà mi raccomando tu non iniziare mai a fumare. Io ho iniziato tardi, qualche mese fa che ci avevo già ventiquattro anni e parecchi funerali. Oggi loro, i miei genitori non fumano più. Se è per quello neanche si amano più, ma già da un tot. Una per questioni necrologiche e l'altro non si bene perché. Comunque preferisco non saperlo. E tutto sto blablaismo di riflessione l'ho iniziato perché c'ho una tosse che non mi fa star disteso e io in piedi non ci riesco proprio a dormire. E le ventiquattro ore sono davvero lunghe da far passare se non fai niente e non ci riesci neanche a dormire. E allora me ne vado nella stanza di mia sorella a far lo scemo. Siccome avevo un po' la barba le borse sotto gli occhi e gli occhi tutti luccicosi dalla malattia mi sono messo a fare l'imitazione di mangiafuoco, quello di pinocchio. Che a lei quand'era piccola le faceva un sacco di paura assieme alla balena e invece adesso che è già all'università ci facciamo solo delle risate. E allora la prendo in giro che mi c'era da aver paura del mangiafuoco della disney che quando ero piccolo c'era un amico del nonno che si chiamava Cencio, l'amico dico perché il nonna si chiama Renzo invece. Questo Cencio dico, aveva una barba lunghissima: tipo che gli arrivava a metà torace o forse più giù e aveva una voce bassa e roca di chi ha già perso il conto della sigarette quando è ancora chiaro fuori. Era davvero un uomo buono che aveva fatto il camionista ma io ero piccolo e quando lo vedevo avevo paura per quella barba lunga e piangevo. Però l'altro giorno, ora che anch'io ho un po' di barba l'ho visto di fronte alla pompa di benzina vicino a via medaglie d'oro che comunque quel posto per me rimane quello della signora dell'agip perché era così che la chiamava mia nonna quando andavamo a fare la spesa e poi lei beveva il caffè lì di fronte. Insomma, riprendo quando l'ho visto, Cencio dico davanti alla signora dell'agip, lui guidava non un camion ma un passeggino con dentro il suo nipotino. Allora ci ho buttato un occhio dentro il passeggino per vedere se anche quel bambino aveva paura della quella barba lunghissima, ma invece il bambino gli sorrideva al nonno, a Cencio e alla sua barba lunga e alla sua voce roca. E ho pensato che quel bambino anche se aveva avuto paura doveva essere un po' come i giapponesi tra terremoti e tzunami. Cioè doveva conoscere già, pur così piccolo, quella parola che traduciamo con destino e che loro scrivono intrecciando i caratteri che indicano vita e movimento.
mercoledì 9 marzo 2011
Cantilena
Era incredibile che per essere contro si dovesse mettere fuori una bandiera in un anniversario. La patria puah... cazzo però nel lerciume che c'era in giro era proprio l'unica per distinguersi. Per mostrare che sotto le nostre unghie non c'era la merda come invece c'era per Semiramide. O almeno così scriveva Dante. Ma sì può che chi si comporta come un anarchico metta fuori sta maledetta bandiera. Ah, la patria! E poi che ci toccherà vedere? altri anarchici che inneggiano a dio? oppure che metton su famiglia? non so che dire...eppure era proprio così. Per non incrociare quelli occhi lì strabuzzanti, tutti spiritati di quel ministro che parla di porcherie e che sembra un piromane da quanto dice che le leggi sono da bruciare. Che ce ne sono sborrantamila e dice numeri a caso. Ma si può? Ma lasciaci il mestiere! Non siamo già abbastanza precari a fine carriera a ventiquattro anni? Anche questo ci devono rubare...sono i ministri a fare gli anarchici e noi? Mica più una vetrina da rompere o uno sbirro che ci picchi. Ah, che mi tocca dire: la patria! dio! la famiglia! Mi tocca dir così per essere anarchico oggi! Cazzo, ma si può! Visto che quegl'altri con la bandiera ci hanno fatto l'uso della carta-culo. Han guardato l'anello del papa e ci hanno pensato che potrebbe un ottimo metodo farmacologico-anticoncezionale-tipo-l'anello vaginale. E la famiglia la tengon su solo perché così gli altri ci possono avere delle figlie minorenni. Ma che ci lascino sboccare in pace sulle leggi e sul futuro invece di farlo già loro. Cazzo, ma possibile che non si può più cantare NO future, come i sex pistols, cazzo che ce l'hanno abolito loro il futuro. Grazie del favore, ma me lo distruggevo anche da solo se permettete. E allora che cosa mi tocca fare! Non lo voglio neanche dire porca di quella puttana! Mi tocca di trovarmi uno straccio di lavoro sommessamente precario, andare a votare, mettere fuori quella cazzo di bandiera, tirar su una famiglia per poi andarci a messa a tirare quattro porchi. Bell'anarchico! Se mi vedesse Stirner! e Bruno Bauer! e Céline! no, non ditemelo che mi viene da piangere! Dai, lasciatemi stare. Lasciatemi stare a lamentare nella mia cazzo di cantilena da provinciale, da Veneto, da nord-est-nel-benessere, da cazzo di locomotiva di questa merda di paese.
domenica 27 febbraio 2011
Rappresaglie
Come un vecchio che è lì a guardare i lavori in corso mi sono visto L'odio in francese senza capirne un cazzo. Per poi sentirti dire che era una giornata un po' blues e chiamarti tutto esaltato perché dovevo dirti quanto mi piacevano le parole e i gerghi in generale e immaginarsi un film tutto parlato con i nostri modi di dire. Però poi che venisse distribuito solo all'estero in modo che la comunicazione collassasse come te al compleanno di M. e J. in quel maggio soleggiato in cui tutti avevamo sempre su una maglietta lisa e bianca della salute. Che io ero arrivato tardi perché dovevo stare a Belluno per andare a una messa o a qualcosa del genere. E mi ero anche fatto anche dare un passaggio in macchina da mio papà anche se erano mesi che non ci parlavamo. E adesso che di quel maggio sono rimaste solo le foto che non abbiamo fatto a Santander e io sono in treno a fare su e giù come faceva Di Livio sulla fascia destra quando ero piccolo e la Juve andava bene. Non come ora che ogni domenica sono improperi e lunghi discorsi su cosa si potrebbe fare per cambiare sta situazione che va avanti ormai dall'anno della B. E quella sera del compleanno, che ero arrivato tardi e per una rarissima volta che non avevo con me la pigrizia nel portafoglio abbiamo fatto una fatica boia a cercare un posto dove tu potessi vomitare perché in quel maggio Campo Santa Margherita era mezzo blindato di sbirri per non so più per quale motivo. E quel veneziano che mi voleva dare botte perché diceva che gli avevo pisciato sulla barca e continuava a dire ghe sboro e che noi studenti riempivamo la sua città di piscio. Ma, per fortuna mi sono salvato fornendo la prova inconfutabile della mia innocenza nel fatto che la sua cazzo di barca era asciutta. Allora lui si è scusato e mi voleva abbracciare, ma che vada a farsi fottere, che non avevo tempo da perdere che stavo cercando un posto dove tu potessi vomitare. Poi ci siamo riusciti, a trovare quel posto e poi non c'avevamo più niente da fare e ce ne siamo andati a casa cosicché tu potessi ascoltare bene il mio russare disperato. In quella tua più che legittima rappresaglia. Che mi sta bene per tutte quelle volte che quando tu volevi uscire mi lamentavo e basta e la cosa più carina che dicevo era che volevo bombardare sulla folla. E ora che questo lo fa Gheddafi me ne pento. Ma non si può fare niente perché è tutto così irreversibile. O, in francese Irreversible come il titolo di un altro film francese che non ho mai visto e che forse guarderò in lingua originale per non capirne un'altra volta un cazzo. E chiamarti per dirti quanto sono belle le parole.
martedì 15 febbraio 2011
I novantaquattro gradini
La più consueta delle domeniche stomachevoli. Di quelle in cui fai due sorsi della vita e già ti vanno alla testa. Sono andato da mia nonna che mi aveva preparato lo gnocco, che è come un piatto di gnocchi solo che composti in un'unica forma e la parola gnocco lo descrive benissimo quasi che è onomatopeica. Tant'è che siccome io abitavo al mille-nove e settantuno di San Stae e lei, mia nonna era vissuta al mille-nove e ottantotto di San Stae mi ha raccontato di quando hanno rifugiato lo zio Beppi, lì nella Venezia del quarantadue. E non so perché quello zio aveva un nome così veneto anche se era russo e era anche ebreo. Lui aveva anche due lauree entrambe conseguite sotto lo zar, una in ingegneria e l'altra non ricordo in cosa diceva mia nonna. Solo che era dovuto scappare perché tutti i laureati dello zar non erano graditi alla rivoluzione. Insomma dalla padella alla brace, dice lei ridendo. Che quando sempre nella Venezia del quarantadue lui era andato a costituirsi il questore lo aveva visto giù dal ponte di Rialto e gli ha detto dove vai? vuoi diventare sapone? Quindi sapevano, mi dice lei. Per fortuna che conoscevamo il questore perché mio padre era morto in Libia e una vita per la patria ti va sempre fare bella figura. E lo zio Beppi se ne stava in un sottoscala con delle risme di fogli alti così tutti scritti in russo. E io che ero piccola ogni tanto quando salivo le scale avevo tanta paura perché saltava la luce e i gradini erano novantaquattro e quante volte li ho contati non te l'immagini neanche. Perché noi abitavamo al sesto piano che il più luminoso di tutta la salizada e neanche la contessa Baracchi stava bene come noi. Che se vai là e guardi il campanello lo puoi ancora vedere il nome Baracchi. E per fortuna che gli ufficiali non ci hanno scoperto, sennò... lo zio sarebbe morto sotto tortura perché chi te lo dice non era un semplice vecchietto ma che invece fosse una spia? E sai le amiche che abitavano in Strada Nuova, hai presente lì dove c'è quella chiesa sconsacrata tutta a mattoni a vista? Ecco lì le guardie facevano le torture e i loro genitori, delle mie amiche dico, dovevano chiudere le finestre dalle urla che sentivano venire da lì... ecco lo zio sarebbe morto di sicuro perché poi era tutto artritico e che fatica per lui quella volta che era andato fino a Rialto per costituirsi, per fortuna che il questore era nostro amico... e che fatica per lui fare quei novantaquattro gradini quella volta per salire fino su a casa per poi salire ancora nel suo sotto-scala. E che paura del buio per me a fare quei novantaquattro gradini quando non c'era la luce e quando fuori c'erano gli ufficiali ubriachi fradici e le esecuzioni sommarie all'Arsenale. E lo zio che ancora mi prendeva in giro perché avevo paura del buio lungo in alto su per quei novantaquattro gradini quando non c'era la luce. Ancora che diceva chiamalo il buio: buio, buio, buio... ti ha risposto? e allora, vedi che se non ti ha risposto allora non c'è niente da aver paura di questo buio. Credo che in quel periodo la mia vita fosse tutta lì.
lunedì 14 febbraio 2011
La corsa agli armamenti
Era da quando assieme alla particola mi avevano dato la pettorina con su scritto soldato di san Pietro. Per poi dire obbedisco e riempirmi il petto con i gradi del crocifisso, non in legno non sia mai che pensino che nacque tutto dal figlio di un falegname. Il crocifisso da impugnare come un bracconiere di anime... ne ho viste di tutti i colori, cazzo, perfino i giovani fedeli conquistati con i concerti heavy metal, cristo santo. Per armare sempre più le diocesi di provincia, cancro della bestemmia e capricorno delle case chiuse. Nel logorio della provincia stitica che tanto l'ha detto anche il prete: vieni a benedire il castello dell'innominato, vieni don Abbondio! che un piatto di minestra di fagioli c'è anche per te. Siamo l'esercito del grest. Con i mangia-preti pronti a genoflettere il trapianto di cuoio capelluto per garantirsi un altro salto di coronarie, ma con benedizione annessa. L'ortodossia di chi dice a questo non rispondo e i basabanchi che metti un soldo la domenica nella cassetta e l'anima sale in cielo benedetta. I rosari appesi sugli specchietti dei suv e sentir dire che bravo che è quel ragazzo! anche se è pien de schei, guarda che bravo...lui sì che ha ancora dei valori. E il vangelo che è rimasto appeso alla croce. E adesso che sono stanco di aver corso su e giù per i pulpiti e il cuore palpita a stento mi ricordo dell'esercito del grest, della recita a scuola e di gesù bambino da mettere nel presepe curato da cima a fondo. E ora che ho disertato quell'esercito perché a me la guerra non mi andava di farla. Che sento l'alluce che comincia a raffreddarsi ancora risuona la canzoncina sono-un-piccolo-pesce-palla-che-sa-nuotare-a-fondo -ma-sa-stare-anche-a-galla. Siamo l'esercito del grest. Ora che sento anche che il pollice che vien freddo e l'angelo della morte mi chiede se può fare qualcosa per me, vi prego di lasciare che mi indegni fino all'ultimo. Che la mia rivolta metafisica sia sincopata come una drum machine pure nell' al di là. L'imperialismo non avrà vita facile nella mia anima, che se prima fischiettavo heaven can wait ora intono heaven knows i'm a misareble now. Non sarò come Guttuso!
Hey J.
Per tutto sto tempo non ho pensato ad altro che a darci un taglio a ste vene. Mai avrei pensato che mi sarei appassionato a qualcosa dell'attualità al bar. Ma Farag era egiziano e aveva famiglia lì vicino alla rivoluzione nata su facebook, come ci aveva detto lui. E così era nervoso come un cavallo sbrigliato in un film con John Wayne. E J. non lo poteva vedere Faraq stare lì a fumare al telefono. E anche se non era pettinato J. ci aveva un cuore, così una sera lo ha preso in disparte, Farag dico, per dirgli che si sentiva davvero in colpa perché la sua famiglia era da quelle parti così vicina a guerra vera, non di quelle a cui giocavamo da bambini. Anche se la sua famiglia era lì, lui doveva stare in mezzo a gente che ci aveva un bel nulla da dire se non che aveva sete. Ci chiamiamo alcolizzati diceva J. e gli dispiaceva davvero che quello che era così vicino, separato solo da un bancone e da qualche bibita, fosse così lontano. Tipo con la testa dalla sua famiglia nella terra dei faraoni. Diceva J. tutto questo e anche altro e allora Farag lo prende sotto braccio e gli dice qualcosa che nessuno ricorda. E J. gli si rivolge ancora dicendo che lui non sa come fare per aiutarlo e che l'unico modo per aiutarlo che gli venisse in mente era continuare a bere per farlo lavorare. Lo faceva, diceva J. per le sue figlie, di Farag intendo. Ci chiamiamo alcolizzati diceva J. quindi fammi una tequila per favore Farag. Continuava J.. E questa mattina che ho smesso di lamentarmi, ricordamelo J. che ho smesso di lamentarmi così mi potrò lamentare di non lamentarmi. Se lo farò sarà perché sono ancora vivo. Sarà perché non siamo ancora stati deportati sulla terra ferma. Ma mi spiace dover pensare anche all'esilio volontario, anche se spero che un giorno potremmo condurre un programma televisivo tutto nostro e io sarò riabilitato come un principe stonato. Mentre tu ordini, nell'ordine: una tequila e una birra.
domenica 6 febbraio 2011
Frattali
Era davvero un casino. Anche se anche in natura era possibile notare fenomeni di auto-similarità. Però per anni avevo studiato e basta. E avevo capito che non bisognava fare niente ti dicevo. E tu che volevi dare un senso perché lo capivi pure tu che non c'era. Ci descrivevamo come oggetti matematici dal comportamento caotico. E ci rincontravamo come algoritmi ricorsivi. Come ogni giorno è approssimativamente simile all'intera vita e ogni rametto è a sua volta simile al proprio ramo. Così tu avevi letto che la vita è orribile ma i giorni possono essere meravigliosi, sebbene a qualunque scala lo si osservi, l'oggetto presenta gli stessi caratteri globali. Non c'è niente nuovo sotto il sole, lo avevo letto per scherzo nell'Ecclesiaste. Per distribuirci sulla cartina geografica secondo una legge come dei frattali aleatori e raccontarci per scritto delle nuove idee. Viaggiando, per non uscire di casa da un'altra parte e quando ti chiedono com'è andata mostrare una foto sul cellulare e dire così. Che avevo visto solo quello dalla finestra e mi ci ero affezionato. Oppure mimetizzarsi tra i graffiti dei vagoni, sempre sull'ultimo binario a guardare la luna tutti vestiti colorati. Leggendo Viaggio al termine della notte dove dice che “filosofare è solo un altro modo di aver paura e non porta ad altro che a dei vili simulacri”. Impaurito come le silhouette dei cassaintegrati, io che continuavo a rimbarbirmi in un rave di citazioni con le orecchie bendate mentre cantavi the time they are a changhing. Invece di immaginarci lontani dalle sventagliate dei simulacri come frattali in fuga.
domenica 30 gennaio 2011
Razzi all'occhiello
St'altra notte mica stavo disteso come un pelle d'orso vicino al caminetto in un ranch dell'Oklahoma. Me ne stavo sistemando di vezze quando mi sono chiesto a che ora vanno a dormire i kamikaze. E se non fosse il caso di intentare anche qui una specie di rivolta del pane e tu che dicevi che il pane era davvero molto buono e che il detto buono come il pane era vero, come pochi altri detti sono veri. I morti salgono a cinquanta si legge sugli occhielli. L'ultimo che avevo visto era coniugi trovati morti in casa. Forse un razzo. Era il giorno dopo capodanno. Cosa si sarebbe scritto il giorno dopo la rivolta? La questione è che eravamo come un delay nelle canzoni dei Joy Division rispetto alla storia. Love will tear us apart, pensavo. Anche alla nostra storia, mia e tua. Noi come i guerriglieri in Tunisia. E che gioia poter tirare i sassi di Matera sulle vetrine per romperle. O, one two, ecco finire il lavoro iniziato dagli americani a Hiroshima. Let's rock. Ovvero, com'è che imparai ad amare la bomba. O forse un razzo. Per salirci sopra, al razzo e bruciare le nostre carte d'identità. E bruciare i coniugi e trovarli come cenere. Noi come i coniugi trovati morti in casa. Ci eravamo accorti in ritardo e adesso si faticava a prenderci perché era comodo appellarsi al legittimo impedimento. Poi mi sono immaginato il loro matrimonio e tu che finalmente ti potevi mettere i tacchi perché non c'ero io. Che ero troppo basso per stare vicino a te con i tacchi. Che ero troppo impegnato a scrivere dichiarazioni di guerra a dio. Per poter spingere migliaia di immigrati in Europa a vedere la tomba di mia madre o di Pasolini e sentirmi dire felicitazioni. Vieni con me a correre sulle ceneri di Gramsci o dei due coniugi trovati morti. Forse un razzo. Ma quando vanno a dormire i kamikaze?
sabato 22 gennaio 2011
I nostri undici settembre
Dovevamo smetterla di invitarci ai funerali. Eppure eravamo lì. E quei lunghi mesi che non tornano.
E le colpe smezzate come le spese per un affitto che non ci potevamo permettere. Io mi annoiavo a guardare le moria dei nostri amici arruolati per invadere le città più grandi. Tu mi dicevi che quella sera speravi che io sarei uscito, ma ero a Belluno. E l'ultima cosa che volevo era sentirti piangere mentre mi vergognavo del mio rantolo. Allora mi sono chiesto quale delle due torri fosse stata abbattuta per prima. E mi sono immaginato che cosa avremmo fatto noi: se ci fossimo fatti incendiare o trafiggere le costole dall'ala dell'aereo. Forse ti avrei invitato a fare una passeggiata parallela alla lamiere o a raccogliere souvenir tra le macerie. Protetti solo da paracaduti improvvisati chi avrebbe mai detto che ci saremo continuati a pensare non come dio comanda. E che sarebbe entrata altra gente in cucina mentre piangevamo. Eppure eravamo lì. E tu mi rassicuravi e dicevi che non bisognava confondere la presenza di nubi con l'assenza di cielo. Però io ho guardato in su e vedevo solo quella nuvola enorme esplodere dai serbatoi del volo centosettantacinque. In realtà non mi interessava più tanto di quella cazzo di nuvola e delle persone bruciate a cui eravamo superstiti: la mia preoccupazione era il mio stomaco che bruciava perché era già il mio compleanno, il giorno delle torri, e tu non mi avevi fatto gli auguri, il giorno dell'inizio del nostro basso impero. Delle parole notturne difficili da portare quando tu mi riaccompagni a casa al telefono perché dici preoccuparti di me è come farlo per te stessa. E non lo sai per quanto tempo, ma è così. E forse siamo durati di più della nostra scadenza perché avevamo una piccola tenda come paracadute. Che mi avevi regalato tu per il mio compleanno prima. E non importa se quello dopo non mi hai fatto gli auguri. Perché ancora ci addormenteremo senza tre pompieri che ci issano addosso una bandiera.
E le colpe smezzate come le spese per un affitto che non ci potevamo permettere. Io mi annoiavo a guardare le moria dei nostri amici arruolati per invadere le città più grandi. Tu mi dicevi che quella sera speravi che io sarei uscito, ma ero a Belluno. E l'ultima cosa che volevo era sentirti piangere mentre mi vergognavo del mio rantolo. Allora mi sono chiesto quale delle due torri fosse stata abbattuta per prima. E mi sono immaginato che cosa avremmo fatto noi: se ci fossimo fatti incendiare o trafiggere le costole dall'ala dell'aereo. Forse ti avrei invitato a fare una passeggiata parallela alla lamiere o a raccogliere souvenir tra le macerie. Protetti solo da paracaduti improvvisati chi avrebbe mai detto che ci saremo continuati a pensare non come dio comanda. E che sarebbe entrata altra gente in cucina mentre piangevamo. Eppure eravamo lì. E tu mi rassicuravi e dicevi che non bisognava confondere la presenza di nubi con l'assenza di cielo. Però io ho guardato in su e vedevo solo quella nuvola enorme esplodere dai serbatoi del volo centosettantacinque. In realtà non mi interessava più tanto di quella cazzo di nuvola e delle persone bruciate a cui eravamo superstiti: la mia preoccupazione era il mio stomaco che bruciava perché era già il mio compleanno, il giorno delle torri, e tu non mi avevi fatto gli auguri, il giorno dell'inizio del nostro basso impero. Delle parole notturne difficili da portare quando tu mi riaccompagni a casa al telefono perché dici preoccuparti di me è come farlo per te stessa. E non lo sai per quanto tempo, ma è così. E forse siamo durati di più della nostra scadenza perché avevamo una piccola tenda come paracadute. Che mi avevi regalato tu per il mio compleanno prima. E non importa se quello dopo non mi hai fatto gli auguri. Perché ancora ci addormenteremo senza tre pompieri che ci issano addosso una bandiera.
martedì 18 gennaio 2011
Commemorare
Era da molto tempo che non ci abbracciavamo così quando lo abbiamo fatto si sono sentite scricchiolare le giunture dell'anima. Era stato quando ci stavamo cercando notizie di noi e allora tu ti sei accorta che anche se l'inverno era stato davvero freddo io non avevo mai messo il piumino quell'anno. E sempre il cappotto, che era liso. Perché sapevi che mi vergognavo a mettere su quel piumino che mi avevano regalato qualche anno prima. Mi vergognavo perché era un piumino costoso e a me piaceva odiare. A te non stava antipatico quel piumino, anche se preferivi il cappotto, che era liso. Dicevi che era molto buffo, il piumino. E ridevi e ti si arricciava il fiocco sempre rosso tra i capelli. E sarà che ce ne siamo stati distanti ma quell'inverno io il piumino lo avevo messo perché ero in un posto dove non mi interessava essere e potevo anche sembrare svergognato. In realtà la vergogna era diventata una condizione abituale perché come dice Sartre, che io comunque lo trovo sopravvalutato, Sartre che però qui ha ragione. Insomma, dice Sartre che tipo si prova vergogna allo sguardo dell'altro perché lo sguardo ci rende nudi anche se abbiamo e vestiti addosso perché nello sguardo dell'altro siamo come degli oggetti e allora noi ci sentiamo nudi come gli oggetti che vediamo, per esempio in cucina, esposti allo sguardo. Magari però Sartre non faceva proprio questo paragone ma il senso è questo. E noi eravamo davvero come degli oggetti perché quello che rimaneva di noi era solo la resistenza dell'inerzia della materia che sopravvive allo scorrere della velocità della luce e si imprime in una pellicola. Ma ciò che si imprime nella pellicola sono solo i contorni e dai contorni solo all'inizio si possono ricordare le sensazioni. Poi rimangono solo i contorni come per gli oggetti nudi. Per questo anche se con su il piumino mi vergognavo solo in un modo essenziale perché per vederci, noi dovevamo guardarci nei nudi che eravamo nei contorni delle foto. Contorni influenzabili come quella volta che dovevamo andare al lago per veder un film e pioveva e abbiamo dovuto fermare la macchina che guidavi tu. Oppure come la Giudecca sbirciata dalla nebbia delle Zattere. Per poi sospirare fino a che le piogge non innalzeranno troppo il livello delle acque.
giovedì 13 gennaio 2011
Virus Coxsackie
Siccome attorno avevamo più grattacieli che cieli dove grattarci via l'esantema dal cuore e tu mica parli di me nei tuoi discorsi. Allora ci siamo rivisti in quella foto estiva dove si vedeva che tu non soffrivi il caldo e che io ho i piedi un po' piatti, perché si vede che il piede sinistro lo butto verso fuori quando cammino. E sarà per questo che le scarpe, io le consumo sempre nella stessa maniera e mi lamento che mi fanno male i piedi. Che però mi fanno meno male che ai soldati in ritirata. La loro preoccupazione, di sti soldati era solo di non morire e noi non lo potevamo capire perché c'era chi ci diceva che una volta si nasceva e si moriva ma che ora si nasce morti e pochi hanno la fortuna di morire ancora perché adesso al massimo le vescicole seguono la tensione cutanea senza particolari complicanze. Ma io non gli credevo a loro perché non ero capace di star lì a tenermi di conto delle cifre della storia, preferisco camminare. E farmi far male ai piedi, che sono un po' piatti i miei. Però tu pensavi ai piatti che dovevamo tirarceli come nei romanzi e io che non lo volevo che i piatti stessero a mezz'aria tra i grattacieli. E allora i piatti li abbiamo solo cambiati di sistemazione, senza farli volare. E non startene a chiedermi cosa ne penso di qua o di là perché me ne sono già sloggiato. Così disfo le domeniche come un letto fatto a dovere in cui vi si getta sopra una catastrofe, o solo un ciccione. E chi lo sa se ci si risolleverà mai da sta malattia che spezza i nervi; per fortuna che non è estate come in quella foto e viene buio presto. E cammino come una barca senza una mano che la armi e con i piedi che mi fan male. Senza niente da raccontare e con la penna che disarmata nella mano riempie il silenzio di unghie mangiucchiate. E se avremo tutto io rivorrò anche le mie dita rosicate e i piedi che mi fan male. Anche se di solito si dice che abbia generalmente un decorso benigno.
mercoledì 12 gennaio 2011
Il fattore Rh
Per i nostri figli iperglicemici non nati in un regime oclocratico, per la loro salvezza e la mia destrezza nel mettere il materasso al posto giusto. Per averti confusa fino alla circonvallazione del senso, per la rotonda della storia che non ho voluto percorrere. Per la storia inautentica che ti cresce addosso, per la scia dei tuoi capelli che sembra, da lontano, reggere il peso della mia vita. Inutile, perché mi sono sputtanato tutto con la borghesia di mio padre, perché è tutto nei tuoi discorsi e nel tuo vestito di fine secolo scorso. E, perdonami se la colpa ricade a te, tuttavia io mi sono fondato su di te a descrivere dei profili inverosimili in cui io avevo paura di fare roba in macchina. E, perdonami se non ti ho consegnato il questionario per la valutazione della felicità. Per le tue R-esistenze e le mie heideggeriane differenze (ontologiche). Per le tue vetrine piene di scarpe e la buona notte con un bacio addormentato. Per il natale odiato che ora è chiuso sotto vuoto, se non per tua madre, amore mio. Per il divenire che trascolora da mutamento a schianto schiavo della distruzione.
Per l'epatite che nota questo cambiamento, questa distruzione: l'umidità di Venezia che mi marcisce.
Per l'epatite che nota questo cambiamento, questa distruzione: l'umidità di Venezia che mi marcisce.
sabato 8 gennaio 2011
Sfollati
Stavamo affacciati alla finestra e guardare tramonti di civiltà e ascoltare le canzoni Aznavuor per pensare a come è triste Venezia. E avevamo occhi aperti ma eravamo già di spalle. E sotto a quel tuo vestito tra il blu e il viola c'era molto di più del secolo scorso. E quel tacchettio che sentivi dietro di te che ero io che ti rincorrevo per la prima volta. E avevo il passo dispari e sgraziato come una Dresna illuminata a giorno anche se tu eri vestita di bianco. Se non ricordo male non parlavamo già fuori-sincrono: non ci si diceva andando al Lido che eravamo come le mozzarelle e che il nostro amore stava ingiallendo e non diventando blu. Perché al tempo non c'erano ancora state le mozzarelle blu ma solo i caschi in Kosovo. Come se niente fosse abbiamo sperato di essere salvati in un bar e poi ci ritroviamo e tu mi dici anche se siamo giovani che speri che l'eterno ritorno ti ridia la tua giovinezza e la mia voce che ti è amica al telefono o in bar. E avevamo occhi aperti ma eravamo già di spalle. E ci siamo attesi come un canto in una casa inagibile e temuti come il grido attorno al quale si è radunata l'umanità. Così abbiamo dovuto essere lacunosi. Hai visto la lontananza che alla fine esisteva mentre io prendevo la pioggia da solo tornando a casa. E gli elenchi che hanno sempre qualcosa di funebre come quando dissero, al funerale di mia madre che per due gocce di pioggia già lei si preoccupava dei figli.
martedì 4 gennaio 2011
Martiri
Dopo esserci laureati siamo ritornati a Belluno, che nel frattempo era diventata secondo le statistiche la città dove si vive meglio in Italia. Siamo ritornati a Belluno per la ridistribuzione degli avvenire ma la domenica pomeriggio in piazza c'erano solo badanti e fattoni. Così non che ci fossero proprio tante possibilità per noi che non avevamo nemmeno il mito dell'audi nuova. E assieme al mito ci mancava anche il mutuo per l'audi nuova. Però la piazza si chiama piazza dei Martiri e allora forse l'unico avvenire che ci rimaneva era quello del martire. Ma non il martire a cui era dedicata quella piazza, perché della storia e della resistenza non ce ne fregava un granché, e anche quelli che facevano gli interessati i martiri ora li avevano appesi alle pareti sui poster perché credevano di pensarla come loro, gli interessati, il che non è tanto differente dall'appendere i martiri sui lampioni in una piazza perché non la pensano come loro, cosa che hanno fatto i fascisti però, non gli interessati. E allora che cazzo di martiri potevamo essere? Non potevamo nemmeno metterci all'opera, perché l'Opera a Belluno è un bar di merda vicino al teatro comunale. Per pudore ce ne siamo ritornati via a vedere altre badanti e altri martiri e altri fattoni, come luca-petto-nudo. Che una volta lo abbiamo incontrato sul ponte degli Scalzi a Venezia ed era a petto-nudo ma possedeva una borsa di nylon e tu ti sei chiesto se dentro quella borsa ci fossero altri petti-nudo e non avevi detto altro per tutta la sera. Ma allora hai deciso di portare con te le tue poche parole e di andare a Londra per vedere dei fattoni famosi tipo Sid e Nancy o qualcuno della loro discendenza, visto che di badanti non ne avevamo ancora conosciute e noi eravamo già dei fac-simile di martiri che sembravamo in vendita dai cinesi. Così ci aggiravamo come pendolari in città con il fiato spezzato come le reni e inseguiti dal progresso e dalle banche, che sentono la paura come si dice dei cani e allora ti inseguono. E chiedevamo solo di perdere le coincidenze e di abitare scomodi come in voli economici. Eppure continuavamo a parlare un linguaggio bellico e a immaginarsi come martiri, senza piazza però.
lunedì 3 gennaio 2011
Rastrellamenti
Dopo capodanno, l'avevo detto che mi sarei tagliato la barba. Così son già passati dei giorni e non me la son ancora tagliata. Potevo farmela, la barba domenica e invece ho deciso di farla l'indomani; solo che era lunedì e ero di corsa. Allora ho lasciato il lavandino sporco perché dovevo uscire a far finta di cercar lavoro, così avrei continuato a lamentarmi di non trovarlo e a piangermi addosso per poi raccogliere le lacrime e distillarle e ubriacarmicisi. Il problema è che non venivano le lacrime, ma avevo davvero sete e allora mi sono messo a tagliare una cipolla sul tavolo della cucina della casa che era dei miei genitori, quando c'erano. Allora avevo proprio voglia di giocare alle barricate con la pigrizia e che lei vincesse, la pigrizia e che io mi consegnassi a lei come un soldato in ritirata. Ma poi ho letto Simone Weil che scrisse nella lista delle tentazioni da leggere ogni mattina che la più nociva era proprio la tentazione alla pigrizia. Cioè non lo aveva scritto proprio così ma lo deduco io perché pigrizia era scritto in grande o in corsivo non ricordo e poi, anzi, c'era davvero scritto tra parentesi che era di gran lunga la tentazione più forte. Allora mi son dovuto mettermi a sistemare la vecchia camera mia e ci ho trovato una scatola rossa con su scritto the stupid box e lì dentro c'era ancora una vecchia tazza che mi avevi regalato tu e lì ci avevo messo le tue foto e le lettere che mi avevi scritto quando eri in Francia. E allora mi son ricordato che mi avevi regalato anche una coperta arancione che uso ancora, che dicevi fosse necessaria per sopravvivere a quell'inverno da lontani. E l'inverno, che è la mia stagione preferita, noi non l'abbiamo mai vissuto in pace: prima eri via, poi abbiamo dovuto rincorrerci nei lutti, poi lavoravi e io non c'ero. Però quella coperta ce l'ho ancora anche nella casa nuova e tu dici di sentirti a casa adesso, anche se io non ci sono e la casa non è quella mia. E di inverni da lontani ce ne saranno parecchi. Così decido di ascoltare l'unico proposito decente che mi è stato proposto per il nuovo anno e mi rileggo il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere di Giacomo da Recanati: “Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? No in verità, illustrissimo.” E quasi fuori c'è la sera che viene e con lei le ronde padane. E io comincio quell'operazione che con gaudio le forze dell'ordine chiamano rastrellamento e così pulisco il lavandino dalle reliquie di una barba, il tavolo della casa che era dei miei genitori dalla cipolla tagliata, ma la scatola rossa, quella no non la richiudo e ne vado a dormire da solo sotto la coperta arancione. Ma facendo mente locale sospiro che per fortuna oggi l'esito del rastrellamento dice che non ci sono stati caduti.
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